I cinque Nothing But Thieves, band made in Southend al debutto discografico con un album omonimo, presentano un lavoro commercialmente imbattibile.
Le sedici tracce a comporre il disco, registrate fra gli Angelic Studios, il Little Drummer Boy e gli Hits & Arts Studios, spiccano come un prodotto perfettamente confezionato, pronto al successo su larga scala.
Ciò che difetta, tuttavia, è l'anima. Siamo dinanzi all'ascolto di un album maniacalmente curato: voce modulata, acuti tuonanti, sonorità studiate. Sicuramente vendibile, riscuoterà il successo di folle, in particolar modo quelle giovanili. Non si può negare, a conti fatti, che si tratti di una collezione di brani da spot televisivo (di grande impatto sul momento, ma non rientranti nella categoria dei grandi classici).
Il richiamo ai Muse, dei quali hanno prestigiosamente aperto la data estiva capitolina al Rock in Roma, è onnipresente. Un tono di voce sopra quello di Matthew Bellamy, forse, ma impostazione del pezzo per il resto analoga. I Nothing But Thieves, si presti attenzione, hanno sfornato un grande disco per chi lo venderà, per i profitti che ne conseguiranno. Ma, per quanto concerne ricerca e pathos, non si avverte, almeno a detta di chi scrive, la drammaticità che proprio l'impostazione polifonica à la Muse o My Chemical Romance lascerebbe attendere.
Ascoltatelo, perché potrebbe essere di vostro gradimento. Ricordarlo, fra un paio d'anni, sarà un po' meno probabile.                
 
Laura Caprino